Il primo approccio alla fotografia risale a quando avevo più o meno nove anni e mio padre mi portò nel suo studio: un piccolo monolocale al piano interrato sotto casa nostra; un luogo tanto affascinante quanto misterioso (mi era concesso entrarvi di rado e solo sotto la supervisione di mio padre). Un posto del quale varcavo la soglia in punta di piedi e sempre con quel reverenziale rispetto che si riserva a quei luoghi sacri o a quegli spazi intimi e segreti il cui uscio ci viene concesso di oltrepassare.
In quello studio mio padre scopriva il disegno, la pittura, la lavorazione del legno, la serigrafia e, nella camera oscura, la Fotografia.Quella volta, mi chiese di entrare in quella piccola camera antistante il bagno. Era buio. Chiuse la porta e accese una luce rossa: era tutto rosso. Anche ciò che sapevo essere bianco era rosso; solo un po’ meno scuro dove prima era bianco. C’era un odore che non avevo mai sentito: era pungente come l’aceto, somigliava all’odore acre del mastice che avevo provato ad annusare e che mi aveva fatto lacrimare gli occhi; era un odore caratteristico e inconfondibile che non avrei mai più dimenticato. Lo vidi armeggiare in tutto quel rosso. Giocava con uno strano aggeggio posizionando sotto di esso un foglio di carta bianco, ed era bianco, vuoto, senza nulla, ne ero certo. Inserì una foto minuscola nella testa di quell’affare e la vidi proiettata nel rosso sul foglio vuoto; aprì una specie di tappo di quello che alla fine chiamò “ingranditore” (che già dal nome sembrava uno strumento dotato di chissà quali fantastici poteri), e ne uscì una luce bianca, in mezzo a tutto quel rosso. Ora potevo esserne certo: il foglio era bianco ma con sopra proiettato il viso di una giovane ragazza. Il tutto durò solo qualche secondo e io non distolsi mai lo sguardo, come si fa con i maghi per scoprire il trucco. Richiuse il tappo e tutto tornò rosso. Prese il foglio sfilandolo da sotto l’ingranditore e il foglio era bianco, rosso chiaro voglio dire, quindi bianco. Si avvicinò a quattro vaschette larghe e basse: quell’odore forte veniva da lì. Immerse il foglio bianco in quel liquido dall’odore di pozione magica e aspettò un po’ facendo dondolare delicatamente la vaschetta e lasciando ondeggiare il foglio in quel liquido; nel frattempo mi sussurrò, sorridendo appena, “questo è lo sviluppo…ora guarda…”, e sembrò che iniziasse a contare tra sé e sé.
Ecco, ora voi immaginate il viso di un bambino che spalanca gli occhi quando vede comparire, piano piano, su quel foglio bianco, il viso della giovane donna che avevo visto fatto di luce poco prima! E più stava nel liquido, più l’immagine si faceva nitida. Dopo un po’ di tempo prese delicatamente il foglio per i due angoli in alto e lo immerse nella seconda vaschetta: quello era chiamato “arresto”. Poi lo immerse nella terza vaschetta con un liquido che chiamò “fissaggio” e infine in una vaschetta di acqua pulita, senza liquidi magici: era il risciacquo e serviva a pulire il foglio, ormai non più bianco, dai residui degli altri liquidi. Fatto questo, appese quel foglio, diventato una bella fotografia in bianco e nero, e accese la luce normale, quella bianca.
Ditemi voi, a 9 anni, come avrei potuto non innamorarmi di una cosa del genere, quando a raccontarla e a mostrarmela passo passo era, fra le altre cose, il mio eroe magico preferito: mio Padre.
La passione per la fotografia nacque effettivamente durante gli anni delle scuole superiori, all’Istituto d’Arte a Catania, dove ritrovai la camera oscura, l’odore degli acidi, la luce rossa e la possibilità di sperimentare, capire e imparare. A seguito del trasferimento dei miei genitori, continuai le scuole all’Istituto d’Arte di Roma, dove cominciai a conoscere la fotografia digitale e la “camera chiara”, la versione digitale della già nota camera oscura. Una volta diplomato, proseguii con l’Accademia di Belle Arti, fino a quando, con l’avvento delle reflex digitali, ne acquistai una di seconda mano e cominciai finalmente a fotografare.
Il mio rapporto con la fotografia cominciò a maturare e ad approfondirsi, grazie soprattutto all’incontro con l’insegnante, Maestro ed amico, Fabio Marazzi, al quale devo praticamente tutto quello che so, in particolar modo in relazione al lato meno tecnico e “calcolato” dell’arte fotografica: insieme a lui ho imparato come appropriarmi della tecnica per poi poterla digerire e applicare senza doverci più pensare, in modo da lasciare spazio all’attimo, al respiro, allo spazio e al tempo, al messaggio, al linguaggio e all’emozione.
Con la sua fotografia, il suo stile e soprattutto la sua ricerca del tutto unica, e che ancora oggi a distanza di anni mi affascina sopra ogni altra tecnica, ho imparato, fra le altre cose, che la Fotografia è sì uno strumento,un modo di comunicare, ma rimane certamente una forma d’arte ai limiti della realtà che, nel confine invisibile fra luce e oscurità, traccia i contorni di limiti assenti e relativi con pennellate d’emozione condivisa e, al tempo stesso, intima.